Laura Lanza di Trabia, baronessa di Carini.
“Signori patri, chi vinisti a fari? ”
Il primo incontro con Laura lo feci all’età di nove anni grazie allo sceneggiato televisivo “L’amaro caso della baronessa di Carini” trasmesso nel 1975.
Il modo crudele con cui la giovane Laura trovò la morte mi sconvolse. Ricordo gli incubi notturni che mi angosciarono nei giorni seguenti tanto da farmi star male seriamente, al punto che mia madre mi portò dal dottore.
Io raccontai tutto. Dopodichè il dottore disse: “La ragazzina è molto sensibile, i programmi televisivi vanno filtrati.”
Così la televisione venne “oscurata” e i malesseri se ne andarono, e a seguire anche gli incubi.
Ma non dimenticai Laura. Dentro di me si erano fatti strada sentimenti di tenerezza e di affetto profondi tali da, in età adulta, cominciare a documentarmi su di lei per conoscerla meglio.
Laura morì nella rocca di Carini il 4 dicembre 1563: aveva 35 anni. Insieme a lei fu ucciso il suo amante, l’amore della sua vita, Ludovico Vernagallo. Secondo il diritto vigente, soltanto il padre aveva facoltà di uccidere la figlia in caso di infedeltà matrimoniale, mentre il marito poteva , sempre secondo la legge, levar mano solo sul suo rivale.
La società dell’epoca rimase esterrefatta da un crimine così efferrato e la gente iniziò a parlarne e a tramandarne la storia, l’amaro caso, attraverso le ballate dei cantastorie. La sua appartenenza a una casata nobiliare fece sì che l’accaduto giungesse fino ai giorni nostri, a testimonianza di tutte le crudeltà che altre donne sconosciute hanno patito nella stessa sorte.
La giovane baronessa di Carini, data in sposa per accrescere il prestigio delle due potenti famiglie, i Lanza e i La Grua, con l’unico compito di generare discendenza, è l’emblema della violenza sulle donne. Merce di scambio, schiava, priva di qualsiasi diritto sulla propria vita e di facoltà di scelta.
Apparteniamo ad una società giudaico-cristiana, la quale ci insegna che fin dalla nascita siamo macchiati dal peccato originale dei nostri progenitori, Adamo ed Eva, dal quale siamo redenti solo attraverso il battesimo.
Eppure dal 25.000 a.C fino al 500 d.C. uomini e donne celebravano indistintamente il culto pacifico della Triplice Dea, la Grande Madre che venne spazzato via dai popoli indoeuropei, i quali invasero l’Asia e l’Europa a più riprese, introducendo una religione monoteista di un Dio maschio, assoluto e guerriero.
I Leviti, nel libro della Genesi consegnarono al mondo una versione della donna che ancor oggi sussiste, assoggettata in ambito religioso al Dio padre e nell’ambito civile, al volere del padre o del marito. Il culto della Dea scomparve quasi del tutto e al posto della Grande Madre apparvero divinità con ruoli di subordinazione rispetto al Dio maschio.
La trasmutazione della Dea nelle vesti di sposa, figlia, amante sottomessa e sottoposta a una autorità divina maschile, portò la donna, dapprima centro della vita comunitaria a essere assoggettata alla volontà dell’uomo in tutti i suoi ruoli quotidiani.
L’Antico Testamento racconta che Dio punì severamente il peccato di Eva, condannandola a soffrire durante il parto, a essere sempre fedele al marito, e a essere da lui dominata.
Al volere di Dio si attribuì il dovere della donna di fedeltà all’uomo e a quest’ultimo il diritto divino di perpetrarle punizioni e violenze .
La donna che era stata l’interprete e l’emanazione della Dea perdeva il suo diritto naturale a essere rispettata e onorata.
Perdeva la libertà di gestire il suo corpo, di occupare posizioni di rilievo nella società, di celebrare i culti sacri, di vivere liberamente la sua sessualità.
Ma quali interessi aveva la cultura maschile a cancellare il culto della Dea e a sottomettere la donna alla volontà e al capriccio dell’uomo?
Il bisogno di riconoscimento della paternità e il possesso dei propri figli.
La religione della Dea non riconosceva la linea paterna sui figli. L’eredità dei beni si trasmetteva di madre in figlia, e gli uomini non avevano ancora individuato la loro partecipazione alla creazione della vita.
Inoltre le donne vivevano la sessualità liberamente, con più partner, pertanto era impossibile stabilire la paternità del neonato.
L’imposizione della fedeltà e la relativa sottomissione al marito tra origine dalla necessità dell’uomo di appartenenza dei propri figli.
Con la discendenza patrilinea, ( da notare il termine patrimonio, che deriva chiaramente da padre) i dominatori maschi si erano finalmente assicurati il completo controllo della società, dove il ruolo della donna era stato finalmente sminuito per “volontà divina” derivante dal peccato originale.
La sicurezza economica della donna fu sottratta al suo volere e alla facoltà di disporne: tutto passò nelle mani del padre o del marito che dettava legge e che di fronte a una disobbedienza era autorizzato a punirla.
Laura Lanza incarna perfettamente questa realtà. Recenti studi sulla sua morte sembrano finalmente svelare che non sia stata vittima di un delitto d’onore ma bensì l’agnello sacrificale immolata sull’altare degli interessi economici tanto del padre quanto del marito.
Ancora ai nostri giorni, ci si sente in dovere di “punire” col feroce giudizio e il forte biasimo, fino ad arrivate a violenze estreme e pure giustificabili, se la donna vive liberamente la sua vita, educa e cresce da sola i figli o si veste in maniera succinta.
Per non parlare della difficoltà che noi donne incontriamo nei vari settori della vita sociale e lavorativa. Le discriminazioni per il ciclo, per la gravidanza che a parer di uomo possono incidere sull’andamento lavorativo.
Gli ostacoli a far carriera in ambiti lavorativi definiti propriamente “maschili”, quali la politica, le forze dell’ordine, gli ambiti manageriali.
Dopo 500 anni, attualissima nella sua disumanità, la storia di Laura è giunta fino a noi come un monito: quello di mettere fine alle violenze subite ogni giorno dalle donne in tutte le parti del mondo e di risvegliare in sé l’energia della Dea, di riconoscerla e di trasmetterla all’umanità malata, fatta di uomini e donne che hanno perso la connessione con la tenerezza e la dolcezza, privati da troppo tempo dell’abbraccio della Grande, amorevole Madre.
A Laura, con tutto il mio affetto.
Nota dell’autore
I testi contenuti in questo articolo sono estrapolati dallo scritto “ Storia di donne nate dee” di Caterina Forti, a conclusione del corso di formazione come mediatrice del Sacro femminile.