Storytelling nell'esperienza
Il dolore fisico si comprende. Se procrastinato preoccupa seriamente.
La sofferenza emotiva colpisce. Se perdura, provoca pietà o insofferenza.
La logica rifiuta e rigetta entrambe le situazioni; eppure tutti necessitiamo del dolore, della sofferenza. Dal momento che uno dei bisogni dell’uomo è quello di essere riconosciuto, l’ego usa tutte le strategie possibili per conquistarsi la visibilità che chiede.
A questo punto ci si chiede : “Ma chi vuole star male?” E la mente inconscia risponde “ Chiunque desideri riempire un vuoto ”.
E quando c'è un vuoto, qualsiasi cosa lo riempa o soddisfi quel bisogno diventa indispensabile. E così il dolore diventa prezioso a tal punto da conservarlo gelosamente.
Sono io stessa testimone di questa verità. Vedere con i propri occhi ciò che si conosce concettualmente fa la differenza.
Qualche anno fa partecipai ad una costellazione familiare, il metodo ideato da Bert Hellinger per comprendere le dinamiche familiari.
In quell’occasione, fui scelta come rappresentante della ragazza protagonista e entrai nel campo dove si svolgono le raffigurazioni. Chi conosce le costellazioni sa di cosa parlo.
Iniziai immediatamente a percepire un forte disagio, ansia, disorientamento, sensazioni che si placarono solo quando trovai una scatola e iniziai a stringerla. A quel punto alzai un sipario intorno a me. Mi isolai completamente dal resto del gruppo e se qualcuno mi chiedeva o cercava di portarmi via la scatola, reagivo bruscamente e mi allontanavo. Alla fine fu la stessa ragazza che io rappresentavo a convincermi, con pazienza e fatica, a farsi consegnare la scatola. Appena in suo possesso, la gettò via, ma cadde vicino un’altra rappresentante.
Ciò che accadde ha dell’incredibile. La ragazza vedendo la scatola vicino a sé, iniziò a urlare in preda al panico. Io osservai attonita la scena e esclamai a voce alta lo stupore per come avevo potuto conservare e tenere stretta cosi a lungo una scatola che stava provocando orrore e terrore in un’altra persona.
La scatola simboleggiava il dolore della ragazza che io impersonavo. La difendevo, la custodivo per non lasciarla andare.
Nessuno tocchi il mio dolore, mi appartiene, mi serve per provare odio e rabbia verso un contesto preciso; così sembrava affermare l’inconscio della ragazza.
Soltanto quando la scatola fu gettata via mi resi conto di quanto male provocava. E aveva provocato. Ero incredula. Ma anche sollevata. Mi sentivo leggera, libera.
Solo vedendo l’effetto che sortisce in un'altra persona si è in grado di comprendere la portata di quella sofferenza abituale e necessaria.
Quante volte custodiamo un dolore come una reliquia, ci crogioliamo in esso, alimentandolo con pensieri e emozioni, invece di lasciarlo andare?
Quante volte ci siamo chiesti a cosa serve realmente questo dolore?
Perché preferiamo stringerlo a noi piuttosto che realizzare quanto bene ci farebbe buttarlo via definitivamente?
Mi piace ricreare durante le sessioni la visualizzazione della scatola come strumento di consapevolezza.
Faccio cosi: chiedo al coachee di immaginare una scatola dove riporre il dolore che sta provando, aggiungendo le emozioni, le sensazioni, i pensieri che sorgono e che alimentano. Tutto nella scatola. Da buttare davanti a una persona ipotetica in piedi davanti a sé e osservare la reazione.
Osservare la reazione di un estraneo significa osservare il proprio dolore e percepirne la portata. Significa prenderne atto. E permette di distaccarsene perché vedere corrisponde a conoscere.
Il corpo ne è grato. Smette di essere il campo di battaglia delle emozioni.
E l’anima esulta.